Pineto, iniziativa culturale e artistica in ricordo del Maestro Lorenzo Ripari. L’eredità in migliaia di scatti
L’arte della fotografia, fin dai primi esordi agli inizi dell’Ottocento, rappresenta uno degli strumenti preferenziali del realismo. Con quest’ultimo termine non si vuole fare riferimento, come potrebbe sembrare, a movimenti artistici o letterari, ma a quell’ innato e umano desiderio di voler fermare il tempo, di immobilizzare il susseguirsi delle immagini, e di eternizzare i tanti volti che attraversano la nostra quotidianità. Non tralasciando nulla, non aggiungendo altro, come sa fare l’obiettivo dell’artista non superficiale.
L’arte fotografica di Lorenzo Ripari (artista pinetese scomparso nel mese di gennaio di quest’anno all’età di 70 anni) è tutta protesa a raggiungere questo obiettivo difficilissimo. Nel suo lungo itinerario artistico, Ripari ha cercato di sondare la realtà, di ritrarne il mistero, di cogliere con la macchina fotografica l’informe inafferrabilità delle cose, restituendone il senso genuino senza infingimenti. Lo sguardo rivolto alle migliaia di scatti che ci ha lasciati in eredità è ripagato dalla tensione estetica “sublimante” dell’artista. Nell’ultima mostra a lui dedicata (in particolare “Vissi d’arte”, organizzata dall’amico Vincenzo Di Marco, Presidente del Centro Studi Vincenzo Filippone-Thaulero, dal 10 al 16 giugno negli spazi di Villa Filiani a Pineto), è possibile percepire questo tentativo di cogliere l’essenza impenetrabile della realtà, la bellezza che si disvela nei corpi femminili, nelle forme del mondo naturale, nel concreto che si fa astratto, nella fotografia che diventa magicamente pittura. Un’arte che, per queste evidenti dissonanze (certamente non nascoste, se non esibite con convinzione), sembra a tratti contraddire il suo statuto ontologico ma che, così facendo, riesce ad affermare in toto la propria autonomia.
I nudi femminili si trovano ad essere sovrapposti a cortecce d’albero, assumono la consistenza della pietra, della creta e poi dell’acqua. L’uso dei cristalli di sale impastati a macchie di colore tenta con intelligenza di disorientare l’osservatore. Queste immagini spaventano, scuotono, ci ricordano il segreto ultimo della materia, le piccole cellule che costituiscono i corpi umani e che sono alla base della creazione, della capacità generativa della donna (vita intrauterina, retrocessione al primordiale). Viene subito da pensare alla pittura che elogia l’ideal-tipo femminino, il suo potere creativo, grembo-madre-godimento. In Gustav Klimt la donna incarna il senso stesso dell’esistenza, è la linfa che sottende le palpitazioni del reale, la forza che anima il mondo. E i motivi floreali, le linee sinuose ci ricordano l’aspetto cellulare e infinitesimale dell’essere. Insomma, nelle opere di Lorenzo Ripari vi è al pari di Klimt un forte legame con la vita, traspare il pudore con cui l’uomo si avvicina al bello, con il gesto dell’ammirazione e con il rifiuto dell’appropriazione violenta: questi sono i veri e autentici protagonisti della sua arte.
Non a caso Vincenzo Di Marco, in una esegesi filosofica dedicata alla fotografia di Ripari, dal titolo Corpi, luci, ombre. Una lettura filosofica dell’arte fotografica di Lorenzo Ripari: “Contrapposizioni” (distribuita in fascicoli personalizzati e stampati in proprio), così descrive l’arte fotografica del maestro e amico: «Lorenzo mi ha parlato delle sue traversie personali, delle sue difficoltà esistenziali, ma mi ha confessato che ciò che lo ha salvato in ogni occasione, anche in quelle davvero difficili e drammatiche vissute recentemente, è stato il suo amore per la vita. Egli ama vivere, l’ama in senso “estetico”, sensibile, concreto, come si amano la luce del sole, la riva del mare, il fruscio delle foglie, la carezza del vento, la bellezza dei corpi». Neanche la malattia degli ultimi anni di vita ha potuto piegare questo istinto portentoso, sapiente, generoso.
Come sappiamo la corporeità torna ad essere celebrata, nel suo ruolo centrale e innovativo, dalle correnti fenomenologiche ed esistenzialiste della filosofia contemporanea. È con il corpo che diviene possibile una reale ed autentica conoscenza del mondo, uscendo così da quel binomio asimmetrico corpo-anima, da quel dualismo irrisolto, tanto caro al platonismo e ad un certo cristianesimo malinteso, fino a trovare pieno accoglimento nel sistema della natura di Cartesio. Anche in Schopenhauer e in Bergson difatti permangono alcuni aspetti di questa visione dualistica dell’essere: nell’uno il corpo è inteso come realtà oggettiva della volontà che domina il mondo, nell’altro è strumento, un semplice mezzo dell’agire umano. Lorenzo Ripari punta sul corpo, sulla materia, sulle colorazioni del mondo per parlare dell’essere, dell’io e del subconscio.
Le modelle ritratte dal nostro artista non sono rivestite di veli, non cadono nel falso pudore dell’artista pentito, che non si diverte a coprire ciò che di fatto appartiene loro: la materia, i volumi e le forme irripetibili. Nell’atto del denudarsi emerge trionfante il soggetto, la donna in carne e ossa, l’idea per la quale «io sono il mio corpo», come dice Gabriel Marcel nel Journal métaphysique, il manifestarsi della personalità, il superamento della differenza tra soggetto e oggetto, tra elemento pensante e strumento del pensiero.
Nel mostrare i corpi femminili nella loro dimensione pura e sensuale, è possibile rinvenire un profondo desiderio di intimità, l’esigenza di voler tracciare spazi protetti, densi di significato, e tuttavia mai definitivamente sondabili. Il volto delle donne rappresentate rimane sconosciuto: c’è un limite invalicabile, una distanza che viene a crearsi tra l’osservatore e quei nudi «come per dire che tutto è visibile e non tutto è praticabile, non per porre freni alle pulsioni sessuali con le quali viene confuso abitualmente il pudore, ma, per dirla con Monique Selz, “è che il pudore costituisca un limite fra gli individui e stia a dimostrare l’esistenza di un luogo interno del soggetto, requisito della sua libertà, ossia del suo pieno sviluppo individuale all’interno della collettività”», nel commento di Vincenzo Di Marco.
Lorenzo Ripari è stato dunque fotografo, disegnatore, collezionista, organizzatore di mostre fotografiche e di corsi professionali per aspiranti fotografi. Nel 1990 ha collaborato con Franca Mattucci e Valentina De Laurentiis alla edizione di un bellissimo volume dal titolo «Pineto, una città verde sul mare», edito da Edigrafital di Sant’Atto di Teramo, con una presentazione di Angelo Bonaglia. Si tratta del primo volume documentato, sul piano storiografico e scientifico, che ripercorre la storia della cittadina pinetese e che mostra le straordinarie bellezze del suo territorio.
Gli ultimi anni della vita di Lorenzo Ripari sono stati caratterizzati da difficoltà economiche e da continue degenze ospedaliere a causa dei suoi gravi problemi di salute. Eppure, come raccontano i parenti e gli amici che gli sono stati vicini senza fargli mancare cure e affetto, non è mai venuta meno in lui quella profonda devozione nei confronti del bello, del sapere e dell’arte. Un uomo dall’animo buono, corpulento fino alla quasi immobilità degli ultimi mesi di vita, dai tratti ingenui che ricordano il principe Myškin di Dostoevskij, alla costante ricerca dell’insondabile: questa è l’immagine che ci restituisce il racconto di coloro che lo hanno conosciuto e che oggi, a sette mesi dalla scomparsa, continuano a ricordarlo e a celebrarlo con l’organizzazione di eventi culturali.
L’opera di Lorenzo Ripari non si ferma all’arte fotografica, ma spazia nel campo delle religioni orientali e nell’arte letteraria. Leggiamo da un suo testo poetico, che sembra fortemente rappresentativo del suo modo intenso di sentire la vita fin nel profondo: «Non posso, non voglio dormire/ dormire vuol dire sognare/ sognare vuol dire soffrire/ soffrire vuol dire morire./ Non posso, non voglio morire/ morire vuol dire non poter più sognare/ morire vuol dire non poter più volare/ morire vuol dire non poter più cantare/ morire vuol dire non poter più ascoltare/ il fruscio del vento, il ruggito del mare/ morire vuol dire non poter più vedere un raggio di luna, un gabbiano volare/ morire vuol dire non poter carezzare/ il suo viso di pesca, i suoi neri capelli/ morire vuol dire non poter ricordare/ i momenti più brutti, i momenti più belli/ morire vuol dire non provar più dolore/ nemmeno di notte quando stanco del mondo/ mi metto a dormire e inizio a sognare» (Lorenzo Ripari, Il sogno). Alessia Nardi